Dunkirk, un film in bilico tra vittoria e disfatta

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DUNKIRK di Christopher Nolan                                                                                                                                             VOTO 6.5

Il film più discusso dell’anno ci immerge letteralmente nel bel mezzo di uno degli episodi più drammatici della Seconda Guerra Mondiale: l’Operazione Dynamo del 1940, meglio nota come “la miracolosa evacuazione di Dunkerque”, durante la quale migliaia di soldati alleati circondati dai Tedeschi lungo le spiagge dell’omonima cittadina francese furono evacuati dai militari della RAF e da numerosi civili inglesi accorsi con navi e barche di ogni genere. Ed è proprio attraverso questi tre punti di vista diversi, terra, mare e aria (e tre personaggi diversi, interpretati rispettivamente da Fionn Whitehead, Mark Rylance e Tom Hardy), che il regista Christopher Nolan intende orchestrare il dramma vissuto dai suoi compatrioti, in un intreccio di linee narrative e temporali che se da un lato affascina e costituisce il trait d’union delle opere dell’autore, dall’altra appare in questo film poco più che un espediente semplicistico e forzato.

 A questo punto, tanto vale dichiararlo subito: nonostante l’esperienza grandiosa e immersiva che il film regala, l’ennesima fatica di uno dei più geniali storyteller contemporanei in buona parte delude. E lo fa solo ed esclusivamente in relazione al tradizionale modo di narrare con cui Nolan ci ha abituati negli anni della sua formidabile carriera. Pellicole come Memento, The Prestige, Inception, Interstellar, con tutti i difetti del caso, riescono comunque a unire in felice connubio la sapiente costruzione di un plot rompicapo sempre funzionale al racconto e mai fine a sé stesso, con un ben delineato percorso emozionale dei personaggi, sempre segnati da una ferita profonda con cui lo spettatore non ha difficoltà ad empatizzare a livello viscerale. Insomma, fino a ieri Nolan era da tutti reputato l’anello di congiunzione tra cinema d’autore e blockbuster di qualità. Invece, in Dunkirk quello che salta all’occhio è un cambio totale di registro stilistico e narrativo. Il racconto si fa più scarno, quasi inesistente, privo di un centro emozionale, mentre la regia vira verso il taglio documentaristico, alternando inquadrature ben composte agli scossoni tipici dell’estetica della macchina a mano. Ma quel che davvero sorprende rispetto alla sua produzione precedente è che l’impianto drammaturgico di base risulta monco. La pellicola è, a detta dello stesso regista, un terzo atto di un film. Mancano premessa e sviluppo, ossia primo e secondo atto canonici del film narrativo tradizionale, che è poi la forma canonica all’interno della quale da anni Nolan ama sperimentare, sebbene si diverta ad imbrigliarla nelle maglie di un racconto non lineare.

Infatti, sin dalla prima inquadratura di Dunkirk siamo gettati nel bel mezzo delle vicende e seguiamo un giovane soldato di cui non conosceremo neanche il nome, mentre afferra uno dei volantini intimidatori lanciati dai Tedeschi, su cui si legge: “Arrendetevi, siete circondati!” E più si va avanti, meno questi personaggi saranno sviluppati e caratterizzati. E’ questo il cambiamento di rotta più sconcertante per chi è avvezzo alle logiche dell’universo narrativo nolaniano: l’assenza di un background dei personaggi. E’ una scelta consapevole, dettata da un approccio cinematografico diverso, più vicino a un pedinamento alla Zavattini/De Sica in Ladri di Biciclette, che all’iperrealistico disegno psicologico di tanti eccentrici personaggi del grande cinema hollywoodiano. Tuttavia, se in Ladri di Biciclette il regista ci forniva una mappatura delle ragioni profonde, della condizione sociale e dell’interiorità dei personaggi, in Dunkirk tutto questo non avviene. E stando così le cose, viene a mancare una reale, sincera empatia da parte dello spettatore, proprio perché già in fase di scrittura del film non è stata progettata. E non bastano le scene di guerra e la continua sensazione di pericolo imminente a frantumare il muro di ghiaccio tra noi e i personaggi. Né la sublime, martellante partitura di Hans Zimmer. C’è bisogno di una conoscenza più profonda e meno distanziata, nonché di una posta in gioco più alta e personale. Se in Interstellar a tenerci col fiato sospeso era il legame di un padre con la propria figlia, in Inception di un padre con i propri figli, e in Memento di un uomo con la propria moglie, nell’ultima fatica di Nolan non esiste nulla di tutto ciò. E il regista britannico, coerente con l’impianto generale, decide di fare a meno anche dei momenti di suspense. Perché suspense vera e propria non ce n’è, presupponendo questa una conoscenza dello spettatore superiore a quella dei personaggi. Ciò che invece domina è la tensione, ma è una tensione che non arriva mai al punto, dissolvendosi proprio nel momento in cui ci si aspettava che le differenti linee temporali convergessero in uno spettacolare e non per questo sentimentale climax. Aspetto ancor più grave, se si pensa che il film è pensato più come un action-thriller che come un war movie tradizionale. Oltretutto manca quel punto di vista forte e soggettivo sulla guerra, tipico di capolavori indiscussi quali Apocalypse Now (il viaggio nel cuore di tenebra dell’uomo) e La Sottile Linea Rossa (la guerra che la natura e ogni uomo combatte dentro di sé), che Dunkirk vorrebbe banalmente ridurre a “trasformiamo una sconfitta personale in una vittoria”. Tanto per intenderci, noi Italiani non avremmo mai manipolato a tal punto la nostra Caporetto.

Tra i vari aspetti del film che non convincono c’è anche la scelta di un cast stellare sfruttato poco e male. Infatti, l’aver ingaggiato attori del calibro di Tom Hardy, che interpreta un pilota della Royal Air Force di cui non vediamo neanche gli occhi, e Kenneth Branagh nei panni del Comandante Bolton che attende aiuti sul molo di Dunkerque, sembra più una scelta dettata da mere ragioni di marketing che da sentite necessità interpretative. D’altro canto, Dunkirk è un film assai riuscito nel liberarsi della tronfia, eccessiva retorica che spesso attanaglia molti film di genere bellico. E’ senza dubbio una grandiosa istantanea di un momento tragico della storia del secolo scorso, messo in scena meravigliosamente. Tant’è che anche la durata, poco più di un’ora e mezza, avalla questa ipotesi. E forse in fin dei conti è proprio questo che la pellicola vorrebbe essere: un tentativo sicuramente interessante ma riuscito a metà di ibridare cinema d’autore, blockbuster e documentario, creando un unicum. 

Molti critici hanno lodato sperticatamente Dunkirk, affermando che è il film in cui Nolan si libera definitivamente delle scorie emotive delle opere precedenti e vola alto nel pantheon dei grandi del cinema. Ma chi scrive non è assolutamente d’accordo, perché un conto è liberarsi di falsi sentimentalismi che spesso attanagliano e soffocano grandi film, e un conto è disfarsi del cuore emozionale del racconto, di quella sottile invisibile partitura leggibile soltanto in filigrana, che a ben vedere è la spina dorsale di ogni storia ben raccontata e l’unico elemento atto a garantire un profondo legame col pubblico.

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